ERO PICCOLO MA…

 

Emanuele Ramondini

 

 

Ero piccolo quando se ne è andato ma non tanto da non capire che cosa significasse per i miei genitori e per tutti quelli che l'avevano conosciuto. Quel giorno me lo ricordo come se fosse ieri. Ero seduto nello studio di casa, qui dove siedo adesso a scrivere. Piangevo. Sentivo di aver perso tempo.

 

Me lo ricordavo vagamente, come un uomo piacevole e sempre giocoso, che mi regalava dolci e caramelle. Mi veniva in mente che non ci avevo quasi mai parlato di cose serie, che non l'avevo mai guardato come un GRANDE ma come un tizio particolarmente simpatico e solare. “Sapevo” che era un tizio importante perché mamma e papà ci andavano a parlare e lo seguivano e lo ammiravano. "Sapevo" chi era. Per me era il più importante tra i signori frati che avevo conosciuto. Il senso del suo valore spirituale era palpabile, in sua presenza come in sua assenza. I miei erano in parte stati forgiati da lui. “Le sedute”, come le chiamavo io, tanto noiose per me e i miei fratelli, in cui confessava i miei famosi genitori, erano sacre. 

 

Quel giorno mia madre.....svanì. Fu come se fosse stata risucchiata dalla cornetta del telefono. Rinsecchì (lei che normalmente somatizza successivamente) e mi urlò di stare zitto perché sembrava proprio che quel signore delle caramelle era.....Andato via.

Piansi esattamente nel punto in cui sono ora, quasi mezzo metro più in basso. Non c’era più, non c’era più.

 

Avrei potuto parlargli, come si deve intendo. Niente più caramelle, siamo grandi, dimmi come si fa, dimmi cose si cambia, come si vive, come si spera, dimmi perché. Dimmi come fare per andare dove voglio andare, chi chiamare, come pregare. Dimmi, chi sono i miei? Come erano? Con che materiale grezzo hai lavorato? Come ti sembra il lavoro finale? Io chi sono?

 

Più di dieci anni dopo mi venne in sogno. Non mi rispose sia ben chiaro, almeno non come fanno i deceduti nelle leggende napoletane sulla fortuna e il lotto.

Mangiavamo in una sorta di stanzone, un refettorio piuttosto ben tenuto, forse un po’ troppo cappella e un po’ meno refettorio. Lui era vestito normalmente, come l’avevo sempre visto. Ricordo che recitavamo il padre nostro tenendoci stretta la mano e che a un certo punto mi mettevo a piangere. Non capivo e allo stesso tempo ero furioso perché non c’era e ancora ero felice perché era lì. Ma soprattutto non capivo.

 

Perché piangi? Non piangere. Perché piangi? E sorrideva. Che c’hai da piangere? Non ero più un bambino ma accettai il dolce che mi diede. E sorrideva.