NOSTALGIA
DI DIO
da “Non
tutto è zizzania”
Non tutte le speranze sono morte.
Non tutti i semi sparsi sono stati bruciati dall’odio e dall’indifferenza. Non
tutti i fiori furono falciati per funerali. Anzi. Quando tutto sembrò morire in
disperazione senza rimedio; quando la violenza perse il controllo e come fiume
in piena ruppe gli argini della razionalità e dell’autodifesa; quando fu la
maggior parte a cantare il Dies Irae dell’uomo, quando anche i migliori furono
travolti dal grigiore comune e, abbandonata la battaglia della vita attesero,
senza speranza, la loro e altrui fine, avvenne il miracolo: eccezionale sì, ma
quotidiano, comune, alla portata di tutti.
Si notò: il sole sorgeva ogni mattina, nonostante tutto, per dare vita e accarezzare i fiori ed i riccioli dei bimbi e degli adolescenti e baciare i capelli radi e bianchi degli adulti; spuntava, ogni sera la luna ad illuminare le tenebre, per tener compagnia agli innamorati e accompagnare le litanie notturne di anime consacrate; e con la luna, le stelle nel cui segno, ogni umano, personale destino era descritto e andava scoperto. Ancora: venne la pioggia, a volte, canterina,fresca, simile a lieve brezza, quasi per dissetare, con sapiente dosaggio la madre terra perché fruttificasse, a dovere, secondo il bisogno dell’uomo; tal altra, la pioggia venne giù: i cieli aprirono le loro cateratte e allora fu una doccia per tutti, uomini e alberi, cose e animali, per purificare, per lavare e mettere a nuovo tutte le cose, come fa lo Spirito in tempi di grazia e in tempo di pentecoste, quando il fuoco riscalda e toglie tutte le sozzure del corpo e dell’orgoglio, rendendolo puro e creativo come ogni nuova esistenza. E furono i giorni della neve, soffice, felpata, silenziosa, a imbiancare città che non avevano voglia di ripulirsi, che costrinse gli uomini a restare a casa per discutere, anche se controvoglia, con moglie e figli nei cui occhi era ormai spuntata la speranza dell’amore e della pace, all’insaputa del papà, dei genitori, sempre lontani. La neve che diede giornate di libertà agli alunni perché facessero festa e cantassero la sapienza della vita più che la scienza dei libri. Tutto sembrò fermo: perché ci si volle insegnare che tutto poteva iniziare, che ci si doveva fermare per riprendere con gusto e partecipazione diversa.
Era che
l’uomo si sentiva prigioniero. Schiavo del passato dal quale non riusciva a
liberarsi, visto come una maledizione della storia e vissuto con il terrore
della guerra che mieteva ancora, con il suo perpetuarsi nella paura dei singoli
e dei popoli, più vittime dei giorni di sangue e di fuoco; l’uomo, schiavo del
futuro che intravedeva incerto e pauroso, aggressivo e tormentato, dove la
droga avrebbe distrutto la vita, la violenza trionfato sull’amore, la pace
avrebbe ceduto all’odio. Il futuro insicuro, il passato vissuto nella paura,
l’uomo perse il gusto del presente che visse con astio e veleno, aggressione
per autodifesa. Si ripiegò su se stesso e attese di vivere, supinamente,
subendo l’esistenza, senza entusiasmo. Poi cominciò a guardare e vide che le
giornate erano ancora belle, il sole ancora nutriva, con la pioggia, la luna,
la neve, l’universo ed ebbe nostalgia di Dio.
Di quel Dio che ancora operava il
miracolo della vita, nel presente!